Le sole risposte ai questionari da parte dei clienti di un’azienda possono portare ad un accertamento fiscale nei confronti della stessa. A tale conclusione è giunta la Suprema Corte, la quale ha stabilito che gli elementi sorti dai questionari “possono costituire per l’Ufficio prove sufficienti a ricostruire un diverso volume d’affari” (Sentenza della Corte di Cassazione n. 22122 del 29 ottobre 2010).
Secondo i giudici, dunque, tale metodologia di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria non viola il divieto di prova testimoniale nel processo tributario ma anzi può rappresentare un valido elemento volto a sostenere l’accertamento cd “INDUTTIVO”.
In ogni modo, si ricorda che la predetta tipologia di accertamento è applicabile al verificarsi delle particolari condizioni previste dall’art. 39, comma 2, del DPR n.600/73, il quale prevede che “… l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma (ossia presunzioni gravi, precise e concordanti): a) quando il reddito d’impresa non è stato indicato nella dichiarazione; …. d) quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse …”